https://www.youtube.com/watch?v=XN4rHGKKSMo
INCIAMPI
martedì 26 maggio 2020
mercoledì 29 aprile 2020
lunedì 13 aprile 2020
lunedì 16 marzo 2020
Nota di Lettura di Carlo Di Legge a Il Ramo più preciso del tempo
Gentile amica, qualche mia nota sul tuo Il ramo più preciso del tempo, adesso che sono riuscito a leggerlo (proprio in questi giorni sto anche leggendo l’edizione Oscar Mondadori delle Opere di Mark Strand, i cui versi hai usato per esergo: magnifico poeta!).
Costanzo Ioni invita a “riesaminare con maggiore accuratezza” (87), a rileggere, dopo averli letti, i tuoi versi. Ma era già chiaro che si trattasse soprattutto di sciogliere il piccolo enigma proposto nel titolo. Cosa è quel ramo più preciso del tempo? Alla fine, lo dici. E proponi l’analogia tra l’esistenza degli uomini e l’inverno (83). Non che, con questo, ogni cosa si risolva, perché è vero che la scrittura (e i temi) sono complessi.
Ma esamino, allora, per sentire meglio la poesia, i titoli delle sezioni, di cui la prima, liturgia della casa: per liturgia s’intende, nel senso comune, l’insieme delle pratiche, oggi perlopiù in contesto religioso. Dunque, il tuo titolo credo indichi una serie di riflessioni in verso, che riguardano una sorta di religione domestica, per come viene spiegata nei versi a p. 8: “eterna remissione degli oggetti” e quindi “enigma forgiato sulla materia”. Ancora domando: per le parole senza remissione – ecco: sono gli oggetti a venire rimessi, o essi rimettono a noi qualcosa? In entrambi i casi, vale la dimensione dell’enigma: dunque casa era enigma – come un mistero, che accomuna, e re-ligat – per tutti, un legame fondato su un luogo, su una forma, su cose: in qualche modo è legato alla materia, l’enigma, in qualche modo rimette il nostro debito alla materia, giacché al tempo stesso ci lega e ci affranca, ci redime, nel momento in cui comprendiamo che però non così tanto si tratta di cose materiali… nonostante, a mio avviso, questa scrittura si riveli sempre non
diretta e a multipli spessori, è abbastanza percettibile il paragone tra l’arcobaleno e l’appartenersi “nella casa:/si vive come per brillamento” (9). Bello trovare che la casa dunque fluisca: essa è pensata “in assetto di fiume” (16) e, se bisogna che mi si cerchi nel sogno (18), questa casa mi somiglierà, credo, nella stessa dimensione, sarà di sogno; “Nella vertigine domestica/c’è una topografia sottile,/una disciplina ragionata a lungo…” (25); ma non è così anche dei sogni? E così avviene che trovo le istruzioni per l’uso della casa o di ogni sua parte: esempio, come diventare finestra – aggiungerei, interpretando: basta dimorare presso quella finestra, percepirla, e si è (anche) finestra. La finestra è a sua volta noi: versione dell’esse est percipi…
Credo che, a parte la dimensione a cui la casa subito rinvia, quella dello spazio fisico, non si tratti tanto di questo quanto di uno spazio dell’anima, e quindi che questa verità sia tessuta di tempo. A ognuno il proprio incantamento, il proprio mistero, il proprio limite: casa.
La seconda sezione, rotazioni, è immagine del tempo planetario, s’apre con riferimento alla temporalità, sia essa espressa con la figura della nodosa curvatura dell’autunno (che però non è ancora abbastanza, è solo approssimazione al più preciso dei rami). Adesso i giorni, leggo, non chiedono che “un onesto divenire” (36). Di qualcosa resta “il solco/o forse il sogno” - 36 (se vi fosse dubbio: “una nuvola scomposta”, 36).
C’è sentire d’abisso, e si “assorbe/ancora tutto il male/come nutrimento” (41). Salire; accade, poi, tornati, “ritrovare il vuoto e il mare triste di veleni” (43). Una labile via d’uscita sarebbe “Essere di musica, di musica soltanto” in visione. Nel momento in cui ci si abbandona a “non guardare più i tramonti”, ecco, quando v’è remissione dalla “ferocia della sera” (52), “inizio a fiorire”. (46); è questione di essere “casuale narrazione/senza condanne, senza ribellione./Essere congedo/ riuscire a roteare” (54). Come spostarsi muovere? Come le stagioni, aggiungo; ma è questione di riuscirvi, forse d’essere trovati, perché “le belle stelle… lasciano in terra ossa,/piccole ossa che hanno partorito figli” (55) e poi “Spunta dall’asfalto, a tradimento/la crepa di dicembre” (59). Cosa è dicembre? Se “Si sta da soli/nell’artiglio della dolenza” (60), allora è vero, del tempo sento ciò che l’asprezza dice (62); nonostante la casa, o a tali condizioni che la casa pur consente, ci vien rimesso poco. E la gioia? Se vi sia, gratuita com’è, essa accade ma “non sa spiegare mai le sue ragioni” (38).
Gentile amica, qualche mia nota sul tuo Il ramo più preciso del tempo, adesso che sono riuscito a leggerlo (proprio in questi giorni sto anche leggendo l’edizione Oscar Mondadori delle Opere di Mark Strand, i cui versi hai usato per esergo: magnifico poeta!).
Costanzo Ioni invita a “riesaminare con maggiore accuratezza” (87), a rileggere, dopo averli letti, i tuoi versi. Ma era già chiaro che si trattasse soprattutto di sciogliere il piccolo enigma proposto nel titolo. Cosa è quel ramo più preciso del tempo? Alla fine, lo dici. E proponi l’analogia tra l’esistenza degli uomini e l’inverno (83). Non che, con questo, ogni cosa si risolva, perché è vero che la scrittura (e i temi) sono complessi.
Ma esamino, allora, per sentire meglio la poesia, i titoli delle sezioni, di cui la prima, liturgia della casa: per liturgia s’intende, nel senso comune, l’insieme delle pratiche, oggi perlopiù in contesto religioso. Dunque, il tuo titolo credo indichi una serie di riflessioni in verso, che riguardano una sorta di religione domestica, per come viene spiegata nei versi a p. 8: “eterna remissione degli oggetti” e quindi “enigma forgiato sulla materia”. Ancora domando: per le parole senza remissione – ecco: sono gli oggetti a venire rimessi, o essi rimettono a noi qualcosa? In entrambi i casi, vale la dimensione dell’enigma: dunque casa era enigma – come un mistero, che accomuna, e re-ligat – per tutti, un legame fondato su un luogo, su una forma, su cose: in qualche modo è legato alla materia, l’enigma, in qualche modo rimette il nostro debito alla materia, giacché al tempo stesso ci lega e ci affranca, ci redime, nel momento in cui comprendiamo che però non così tanto si tratta di cose materiali… nonostante, a mio avviso, questa scrittura si riveli sempre non
diretta e a multipli spessori, è abbastanza percettibile il paragone tra l’arcobaleno e l’appartenersi “nella casa:/si vive come per brillamento” (9). Bello trovare che la casa dunque fluisca: essa è pensata “in assetto di fiume” (16) e, se bisogna che mi si cerchi nel sogno (18), questa casa mi somiglierà, credo, nella stessa dimensione, sarà di sogno; “Nella vertigine domestica/c’è una topografia sottile,/una disciplina ragionata a lungo…” (25); ma non è così anche dei sogni? E così avviene che trovo le istruzioni per l’uso della casa o di ogni sua parte: esempio, come diventare finestra – aggiungerei, interpretando: basta dimorare presso quella finestra, percepirla, e si è (anche) finestra. La finestra è a sua volta noi: versione dell’esse est percipi…
Credo che, a parte la dimensione a cui la casa subito rinvia, quella dello spazio fisico, non si tratti tanto di questo quanto di uno spazio dell’anima, e quindi che questa verità sia tessuta di tempo. A ognuno il proprio incantamento, il proprio mistero, il proprio limite: casa.
La seconda sezione, rotazioni, è immagine del tempo planetario, s’apre con riferimento alla temporalità, sia essa espressa con la figura della nodosa curvatura dell’autunno (che però non è ancora abbastanza, è solo approssimazione al più preciso dei rami). Adesso i giorni, leggo, non chiedono che “un onesto divenire” (36). Di qualcosa resta “il solco/o forse il sogno” - 36 (se vi fosse dubbio: “una nuvola scomposta”, 36).
C’è sentire d’abisso, e si “assorbe/ancora tutto il male/come nutrimento” (41). Salire; accade, poi, tornati, “ritrovare il vuoto e il mare triste di veleni” (43). Una labile via d’uscita sarebbe “Essere di musica, di musica soltanto” in visione. Nel momento in cui ci si abbandona a “non guardare più i tramonti”, ecco, quando v’è remissione dalla “ferocia della sera” (52), “inizio a fiorire”. (46); è questione di essere “casuale narrazione/senza condanne, senza ribellione./Essere congedo/ riuscire a roteare” (54). Come spostarsi muovere? Come le stagioni, aggiungo; ma è questione di riuscirvi, forse d’essere trovati, perché “le belle stelle… lasciano in terra ossa,/piccole ossa che hanno partorito figli” (55) e poi “Spunta dall’asfalto, a tradimento/la crepa di dicembre” (59). Cosa è dicembre? Se “Si sta da soli/nell’artiglio della dolenza” (60), allora è vero, del tempo sento ciò che l’asprezza dice (62); nonostante la casa, o a tali condizioni che la casa pur consente, ci vien rimesso poco. E la gioia? Se vi sia, gratuita com’è, essa accade ma “non sa spiegare mai le sue ragioni” (38).
Un libro del male
di vivere? Il negativo è l’inverno, il positivo è l’inverno. In attesa
forse che ne vengano giuste distanze, come recita il titolo dell’ultima
parte, che apre con l’immagine del vuoto
che abbiamo (che siamo – 63) e chiude con l’immagine onirica di cose primordiali, altissime sulle nuvole
(83).
Dal vuoto al sogno. Una meditazione sul senso
dell’esistenza; dalle figure del tempo al vuoto di figure. “plasticità del
corpo è un’idea distante” (72), senso del senso è “la tua disfatta” (73) e sei tutto il mondo – Schopenhauer avrebbe
detto: la volontà stessa – “con il
tuo dolore” (73). Il senso è rispecchiarsi negli altri, credo in modo di
compassione, perché infatti temo, ma “non delle mie ferite il peso” (75).
Riusciranno le distanze, una volta che si riesca a
trovarle e tenerle, a prevalere su una memoria “vigile e crudele”? (65).
Leggo il tuo libro come meditazione sulla caducità, quindi su tale ramo preciso del tempo che è
l’inverno, e che ci rassomiglia: certo che l’inverno, come accennato, è anche
premessa di rinascite – ma qui non vedo tanto questo aspetto – piuttosto, offri l'immagine del lasciare – “ ritrarsi precoce dell’abbraccio”, e nella domanda
sul “ gesto perfetto del commiato/ … che noi dobbiamo decifrare” (83).
Nonostante il gesto sia detto perfetto, restiamo sempre a domandarcene il senso.
mercoledì 22 gennaio 2020
venerdì 17 gennaio 2020
https://www.ilgiornalaccio.net/libri/il-ramo-piu-preciso-del-tempo-i-versi-di-ketti-martino/
SUL RAMO DEL TEMPO, OLTRE IL DOLORE…
(Ketti Martino-Oèdipus Edizioni, Salerno, 2018)
Prezioso libro di poesia suddiviso in 3 dense sezioni che ruotano attorno al tema del tempo, così a prima vista. Ma niente è così scontato in questo libro: il tempo, infatti, rinvia allo spazio, alle stagioni, al sentimento del dolore, al desiderio di riscatto, in un ritmo di pensieri in bilico sulla soglia delle grandi domande dell’esistenza. Ma è da quel che ci è vicino che si deve cominciare.
“Liturgia della casa” è così la prima sezione, dove la casa è percepita e restituita come spazio concreto dell’esserci e al tempo stesso come spazio metafisico della riflessione su di sé e sul mondo. La casa, allora, come metafora dell’abitare heideggeriano del mondo, come cornice del sorgere della lingua e della poesia, come forma della nostra inquietudine. La casa, affollata di oggetti e ricordi, di storie, respiri della materia, appare come il terreno della cura ed al tempo stesso luogo enigmatico e sfuggente della costruzione delle nostre più intime domande e delle nostre esperienze primarie.
Filtrate però dal linguaggio, dalla lingua: questo è visibile anche per modo di procedere dei testi. La poesia di Ketti Martino procede infatti per quadri, di poesia in poesia, ed anche all’interno dei singoli testi ritroviamo questo procedimento in virtù del quale le strofe, i distici, le terzine, ecc. potrebbero essere dei testi conchiusi in se stessi. E’ come se ogni figura poetica aprisse una porta su altre stanze, come se la parola indugiasse su una soglia oltre quale nuovi spazi sono afferrabili. La logica della lingua e della poesia non può essere imbrigliata o limitata dalla logica della ragionevolezza del “discorso”. La poesia non è discorso: è linguaggio allo stato puro, parola che si fa immagine, imago che è ratio. E non è necessario forzare artificiosamente il linguaggio nella presunta visionarietà: la visione emerge dal contatto, dalla presenza diretta della parola dinnanzi all’oggetto e al suo proprio pensiero.
Filtrate però dal linguaggio, dalla lingua: questo è visibile anche per modo di procedere dei testi. La poesia di Ketti Martino procede infatti per quadri, di poesia in poesia, ed anche all’interno dei singoli testi ritroviamo questo procedimento in virtù del quale le strofe, i distici, le terzine, ecc. potrebbero essere dei testi conchiusi in se stessi. E’ come se ogni figura poetica aprisse una porta su altre stanze, come se la parola indugiasse su una soglia oltre quale nuovi spazi sono afferrabili. La logica della lingua e della poesia non può essere imbrigliata o limitata dalla logica della ragionevolezza del “discorso”. La poesia non è discorso: è linguaggio allo stato puro, parola che si fa immagine, imago che è ratio. E non è necessario forzare artificiosamente il linguaggio nella presunta visionarietà: la visione emerge dal contatto, dalla presenza diretta della parola dinnanzi all’oggetto e al suo proprio pensiero.
“Così ci si appartiene nella casa/ si vive per brillamento”. Il viaggio nella casa è anche un viaggio dentro la parola: questo interessa a Ketti Martino: “Resistere agli urti della casa” come a quelli della lingua: “Di queste ore amo/ i raggi sulla ringhiera, /… non avere pane, non fare più domande:/ E’ questa l’ora dello sconcerto,/quella che dispone alla parola,/ quando anche un capello/ può dividere ogni cosa” /ogni cosa che non abbia posto”.
Perché, nella poetica di Martino, ogni cosa deve poter trovare il suo posto: non per ossessione dell’ordine, ma per placare la domanda di senso che ci spinge ad andare avanti. Dentro questa domanda emerge un’altra esigenza: la cura del dolore vissuto.
L’esperienza della “casa” non è elegiaca, bucolica. È crudezza della vita, è disagio da superare: “Non riconosco cosa che non sia accaduta/ o che, rappresa nella memoria, faccia ombra.” Non sappiamo “come giungerà la salvezza” perché “la vita promessa è una fucina di casualità, /un simulacro di privazione e rapimento”. Niente è scontato dicevamo, niente è come appare. La casa è un rifugio, specchio di vita: “in sordina, l’odore raffermo della casa/s’insinua in ogni ruga di tessuto”. Ma anche terreo scivoloso, inquietante. Così si arriva ad una questione decisiva:
Perché, nella poetica di Martino, ogni cosa deve poter trovare il suo posto: non per ossessione dell’ordine, ma per placare la domanda di senso che ci spinge ad andare avanti. Dentro questa domanda emerge un’altra esigenza: la cura del dolore vissuto.
L’esperienza della “casa” non è elegiaca, bucolica. È crudezza della vita, è disagio da superare: “Non riconosco cosa che non sia accaduta/ o che, rappresa nella memoria, faccia ombra.” Non sappiamo “come giungerà la salvezza” perché “la vita promessa è una fucina di casualità, /un simulacro di privazione e rapimento”. Niente è scontato dicevamo, niente è come appare. La casa è un rifugio, specchio di vita: “in sordina, l’odore raffermo della casa/s’insinua in ogni ruga di tessuto”. Ma anche terreo scivoloso, inquietante. Così si arriva ad una questione decisiva:
“Come saranno le cose dopo di me? /Saranno ancora vive o senza fiato? / Continuerà a somigliarmi questa casa, /arcuata e penitente come un inverno?” Perché, come scrive altrove. “E’ fatta di noi anche questa pietra/ che della nostalgia è cura nobile.” E tocca alla poesia prendersi cura di sé e delle cose: “le parole hanno l’ambizione di raccontare il sacrificio, / di affidare agli occhi la complessità del tempo”. E ancora. “In sordina, l’odore raffermo della casa/s’insinua in ogni ruga di tessuto” e do converso: “Nella parola/c’è un passaggio che contiene anche l’oblio”. La casa accompagna la vita, la storia: “Così fallimentari le palpebre si chiudono. / I mattoni, allineati nella loro permanenza, / hanno nobiltà di porcellana. / Domani, la casa sarà un isola, / un travaso di silenzio e rovine”.
La seconda sezione è “Rotazioni” in cui la poesia di Martino procede seguendo un movimento ellittico, che non sia un falso movimento che sempre ritorni sull’eguale, ma un ruotare dentro ed oltre. La rotazione è quel movimento reale e metaforico che permette di avanzare senza dimenticare ciò che ci si lasca dietro, dolore incluso. In questa prospettiva la dimensione etica della poesia di Ketti Martino emerge fondendosi con un desiderio di conoscenza che la poesia riesce a cogliere, connettendo sentimento e razionalità, necessità definitoria con la consapevolezza della provvisorietà dei risultati raggiunti.
In effetti, in questa sezione è presente un più vivo istinto epigrammatico che attenua una certa forma di neo-crepuscolarismo lirico nato dal necessario disincanto del poeta nei confronti delle certezze, delle grandi o piccole verità. Ed emerge più forte ancora l’eco di un dolore, di una violenza che ha attraversato il tempo e la vita ed oltre la quale occorre andare, per rotazioni, appunto.
In effetti, in questa sezione è presente un più vivo istinto epigrammatico che attenua una certa forma di neo-crepuscolarismo lirico nato dal necessario disincanto del poeta nei confronti delle certezze, delle grandi o piccole verità. Ed emerge più forte ancora l’eco di un dolore, di una violenza che ha attraversato il tempo e la vita ed oltre la quale occorre andare, per rotazioni, appunto.
“Resta di qualcosa il solco/ o forse il sogno/ resta del non detto il tarlo,/… sottopelle resta/ l’insistere negli angoli/ sulle cicatrici impolverate….” – “La verità cresce nel taglio della gola… La gioia non sa spiegare mai le sue ragioni” – “A contemplare le mie unghie, /i graffi, non impiego molto./ la gente mi scruta e fugge…/non s’accorge del vento/ che mi sposta” e poi ancora altrove “Nessuno ha la parola esatte, /quella che ci ha fatti corpo / e ovatta che tampona la ferita/…il ventre assorbe / ancora il male/ come nutrimento”. E finalmente in un’altra poesia “Scelgo di non guardare più i tramonti, /chiudo gli occhi/ inizio a fiorire”.
Da qui un nuovo punto di svolta: “Noi viaggiamo stranieri sopra il foglio” …avvolti da “luce e fango”, presi in “questo tracimare di incertezze” perché “in tutto questo/ è il nostro vivere/il nostro fitto precipitare nella felicità”. La poesia, lo scrivere, come forma di umanità necessaria, ma dura da conquistare.
“Non offro più promesse/ né il collo sacrificale alle fatiche”: la poesia solleva, apre un nuovo spazio, nuove stanze: “piccola sfera priva di vergogna”. Verso cui occorre andare con sguardo leggero e ritrovato. C’è qui una semplicità non banale in questi versi che ci dice come sia importante in poesia usare sempre le parole giuste mettendole al posto giusto. Il desiderio del poeta è “essere casuale narrazione/ senza condanne, senza ribellione. /Essere congedo/ riuscire a roteare/ guardare ovunque”. Così potrebbe essere possibile una via d’uscita: “Furono passaggi ripetuti/ ripetuti crolli/ripetute morti/ e noi, in un nascosto amore, /dalla terra a sollevarci”. E ancora “Imparavamo questo: vestire gesti/ di tenerezza e d’innocenza. /In quella infinitudine di pace, / in quella parte di confine ch’era voce, / io cominciavo a somigliare a una stella”. E la sezione si chiude non a caso coi versi “Io, però, ho bisogno di altro tempo;/dell’attenzione del mio tempo”. Pur sapendo che “Del tempo sento ciò che l’asprezza dice”.
Nella terza parte “Distanze”, Ketti Martino compie una sorta di sintesi tematica che, a mio modo di vedere, rappresenta anche la parte migliore del libro. Martino stringe con forza i suoi temi nella gabbia della pagina: il confronto col male, il conflitto tra verità e apparenze, le riflessioni sul tempo, il dubbio come metodo e condizione esistenziale, i temi della memoria e dell’innocenza perduta (ma non per sempre…), le riflessioni sulla lingua e sul ruolo del poeta. Tutto questo ritroviamo in questa sezione che roteando raccoglie quel che era emerso dalle parti precedenti del libro e le proietta in un nuovo cielo invernale, terso e teso.
La sezione di apre così: “La memoria è un accadere frammentaria/ un ripetersi di erranze…Plana su ogni corpo celeste e/ come avvoltoio si sfama”… “in ogni cerchio il limite e l’inizio” è ciò che vediamo, ma c’è ancora una nuova soglia da varcare: “Tu guarda come non ci siamo arresi,/come siamo gravidi./Guarda i nostri cuori naviganti…/come si aprono/ si aprono e non si chiudono”.Molto bella e significativa è la poesia di pagina 76:
La sezione di apre così: “La memoria è un accadere frammentaria/ un ripetersi di erranze…Plana su ogni corpo celeste e/ come avvoltoio si sfama”… “in ogni cerchio il limite e l’inizio” è ciò che vediamo, ma c’è ancora una nuova soglia da varcare: “Tu guarda come non ci siamo arresi,/come siamo gravidi./Guarda i nostri cuori naviganti…/come si aprono/ si aprono e non si chiudono”.Molto bella e significativa è la poesia di pagina 76:
Adesso scrivo della soglia,
scrivo dei transiti
della luce e del cristallo,
del gorgo e del disordine ancestrale.
scrivo dei transiti
della luce e del cristallo,
del gorgo e del disordine ancestrale.
Scrivo delle rotazioni
delle consonanze mie dentro le tue
della mutevolezza della mutevolezza.
delle consonanze mie dentro le tue
della mutevolezza della mutevolezza.
Perché alla fine ciò che conta è “come essere vita, tenace vita…/come essere disegno reinventato /e per rotazione/ screziato spazio, … come essere aria/ aria che sfoglia,/morde e/ non ferisce.
Questa apertura è la via che salva, perché “abbiamo in questa vita la spinta/ a farci enigma, a non dire lo sgomento, /la traboccante attesa.” La tua anima, ci dice il poeta “è nel ritrarsi precoce dell’abbraccio/ nel travaso di sassi sulle spalle/ nel gesto perfetto del commiato/ nel gesto che noi dobbiamo decifrare”.
Questa apertura è la via che salva, perché “abbiamo in questa vita la spinta/ a farci enigma, a non dire lo sgomento, /la traboccante attesa.” La tua anima, ci dice il poeta “è nel ritrarsi precoce dell’abbraccio/ nel travaso di sassi sulle spalle/ nel gesto perfetto del commiato/ nel gesto che noi dobbiamo decifrare”.
“Le cose primordiali stanno altissime sulle nuvole.
Il disincanto del dolo ha una sua tenerezza secondaria,
quasi dimezzata.
Del tempo, l’inverno è il ramo più preciso,
e in questo ci assomiglia”.
Il disincanto del dolo ha una sua tenerezza secondaria,
quasi dimezzata.
Del tempo, l’inverno è il ramo più preciso,
e in questo ci assomiglia”.
Ketti Martino chiude riprendendo (non spiegando) il titolo della sua raccolta: l’inverno è la stagione della rigenerazione (com ha notato acutamente Costanzo Ioni nella sua post-fazione): ripiegarsi su stessi non è chiudersi, ma appunto roteare oltre, prendere le distanze dal dolore, dal male, ma anche dalle false illusioni. La poesia, nella quale occorre riporre grande fiducia, ci accompagna in questo vorticoso viaggio che, come accade nel libro di Ketti Martino, può riprendere in ogni momento, in ogni istante. E tocca a ciascuno di noi scegliere la sua “rotazione” oltre “il ramo più preciso del tempo”.
Stefano Vitale
Note sull’Autrice
Ketti Martino è nata a Napoli. Laureata in filosofia, abilitata in Psicologia sociale, ha insegnato nella scuola pubblica. Ha pubblicato la silloge poetica I poeti hanno unghie luride (Boopen Led, 2010) e Del distacco e altre imparmanenze (La Vita felice, 2014) .
Ha curato assieme a Floriana Coppola l’antologia poetica La poesia è una città (Boopen Led, 2011). Alcune delle Antologie in cui sono presenti i suoi testi: Alchimie e linguaggi di donne a cura di F. Coppola (Boopen, 2011), Alter ego. Poeti al Mann a cura di M. De Gemmis e F. Tricarico (ArteM, 2012), Percezioni dell’invisibile a cura di G. Vetromile (L’Arca Felice, 2013), Ifigenia siamo noi a cura da G. Vetromile (Scuderi, 2014). Vincitrice del Premio Speciale all’XI edizione del Concorso Nazionale di Poesia “Città di Sant’Anastasia”. Molti suoi testi poetici e di narrativa sono pubblicati su quotidiani e presenti in rete su siti letterari
Ketti Martino è nata a Napoli. Laureata in filosofia, abilitata in Psicologia sociale, ha insegnato nella scuola pubblica. Ha pubblicato la silloge poetica I poeti hanno unghie luride (Boopen Led, 2010) e Del distacco e altre imparmanenze (La Vita felice, 2014) .
Ha curato assieme a Floriana Coppola l’antologia poetica La poesia è una città (Boopen Led, 2011). Alcune delle Antologie in cui sono presenti i suoi testi: Alchimie e linguaggi di donne a cura di F. Coppola (Boopen, 2011), Alter ego. Poeti al Mann a cura di M. De Gemmis e F. Tricarico (ArteM, 2012), Percezioni dell’invisibile a cura di G. Vetromile (L’Arca Felice, 2013), Ifigenia siamo noi a cura da G. Vetromile (Scuderi, 2014). Vincitrice del Premio Speciale all’XI edizione del Concorso Nazionale di Poesia “Città di Sant’Anastasia”. Molti suoi testi poetici e di narrativa sono pubblicati su quotidiani e presenti in rete su siti letterari
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